La poesia, che fa parte di Odi barbare, prende spunto da due episodi ben preciso della vita di Carducci: l’incontro con Carolina Cristofori Piva (Lidia), la donna da lui amata per molti anni, avvenuto a Milano nel mese di giugno (il giovine sole di giugno) e la partenza di lei da Bologna, in treno, la mattina del 23 ottobre 1873. Carducci racconta questo episodio anche in una lettera indirizzata a Lidia:
Ripenso alla triste mattina del 23 ottobre 1873, quando ti accompagnai alla stazione, e tu mi t’involasti in un’orribile carrozza di 2 classe, e il faccin mi sorrise l’ultima volta incorniciato in una infame abominevole finestrella quadrata, e poi il mostro, che si chiama barbaramente treno, ansò, ruggì, stridé, si mosse come un ippopotamo che corra fra le canne, e poi fuggì come una tigre.
La luminosa giornata d’estate e il grigio (plumbeo) cielo d’autunno fanno da sfondo a due diversi momenti della vita del poeta e riflettono i suoi opposti sentimenti: la gioia per la presenza di Livia e il dolore per la sua assenza . Questi temi (contrasto fra passato e presente, fra tristezza e felicità , fra estate e inverno…) sono ricorrenti nella poesia di Carducci: la novità di Alla stazione in una mattina d’autunno consiste nel modo in cui vengono espressi, nella sperimentazione di uno stile che coniuga la tradizione classica (la strofa alcaica[1] e il linguaggio ricercato) con la elementi di modernità ( rappresentazione realistica del quotidiano e termini estranei alla convenzione letteraria). Prendiamo come esempio la descrizione del treno.
Van lungo il nero convoglio e vengono
incappucciati di nero i vigili,
com’ombre; una fioca lanterna
hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei
freni tentati rendono un lugubre
rintócco lungo: di fondo a l’anima
un’eco di tedio risponde
doloroso, che spasimo pare.
E gli sportelli sbattuti al chiudere
paion oltraggi: scherno par l’ultimo
appello che rapido suona:
grossa scroscia su’ vetri la pioggia.
Già il mostro, conscio di sua metallica
anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei
occhi sbarra; immane pe ’l buio
gitta il fischio che sfida lo spazio.
Va l’empio mostro; con traino orribile
sbattendo l’ale gli amor miei portasi.
Ahi, la bianca faccia e ’l bel velo
salutando scompar ne la tenebra. (vv 17-36)
Per restituire il ritmo della strofa alcaica, Carducci costruisce strofe composte da quattro versi: il primo e il secondo sono formati da due versi di cinque sillabe (quinari), l’ultimo dei quali ha l’accento sulla terzultima sillaba (sdrucciolo); il terzo verso è di nove sillabe (novenario), il quarto di dieci (decasillabo).
La vaporiera, che nell’Inno a Satana veniva salutata come simbolo del progresso e dell’età nuova, è descritta utilizzando latinismi e figure mitiche: i freni sono tentati (percossi) dalle mazze di ferro, il fischio è immane (enorme), somiglia a un mostro empio (spietato) che separa il poeta dalla sua donna, dai suoi occhi lucenti come stelle capaci di dargli finalmente serenità e quiete (stellanti occhi di pace); è un dio malefico simile a Plutone che rapisce e trascina negli Inferi la dolce e bella Proserpina. Questi elementi che si rifanno alla tradizione classica sono intrecciati a termini moderni e immagini concrete che descrivono in modo realistico una stazione ferroviaria: il personale addetto ai freni (i vigili), vestiti di nero, alla luce di una lanterna fioca battono con forza le loro mazze di ferro per controllare che tutto funzioni, gli sportelli vengono sbattuti con fragore. L’ incontro fra antico e nuovo crea un’atmosfera sospesa, strana, dove il sogno e la realtà si mescolano e si alternano; per questo Alla stazione in una mattina d’autunno è considerato dalla critica un testo originale e moderno.
[1] La poesia è composta da quindici strofe alcaiche, così chiamate dal nome del poeta greco Alceo a cui se ne attribuisce l’invenzione. È composta da due endecasillabi (dodici sillabe), un enneasillabo (nove sillabe) e un decasillabo (dieci sillabe).