Abruzzo e Molise: testi

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    da Ignazio Silone, Fontamara, Milano, Mondadori, 1978 (I ed. Zurigo, 1933 in lingua tedesca)

     

    dalla Prefazione (pp. 29-30)

    A nessuno venga in mente che i Fontamaresi parlino l’italiano. La lingua italiana è per noi una lingua imparata a scuola, come possono essere il latino, il francese, l’esperanto. La lingua italiana è per noi una lingua straniera, una lingua morta, una lingua di cui dizionario, la cui grammatica si sono formati senza alcun rapporto con noi, col nostro modo di agire, col nostro modo di pensare, col nostro modo di esprimerci.

     

    Naturalmente, prima di me, altri cafoni meridionali han parlato e scritto in italiano, allo stesso modo che andando in città noi usiamo portare scarpe, colletto, cravatta. Ma basta osservarci per scoprire la nostra goffaggine. La lingua italiana nel ricevere e formulare i nostri pensieri non può fare a meno di storpiarli, di corromperli, di dare a essi l’apparenza di una traduzione. Ma, per esprimersi direttamente, l’uomo non dovrebbe tradurre. Se è vero che, per esprimersi bene in una lingua, bisogna prima imparare a pensare in essa, lo sforzo che a noi costa il parlare in questo italiano significa evidentemente che noi non sappiamo pensare in esso (che questa cultura italiana è rimasta per noi una cultura di scuola)

     

    (p. 74) Noi conoscevamo La Zappa come giovanotto di poco ragionamento, però, in quel caso, aveva ragione. Probabilmente la guardia campestre si era burlata di lui. I tratturi sono sempre stati di tutti. Dalle nostre montagne fino alle Puglie, sono sempre stati di tutti. Nel mese di maggio, dopo la fiera di foggia, un interminabile fiume di pecore vengono ogni anno a passare l’estate sulle nostre montagne, fino a ottobre. Cristo non era ancora nato e si racconta che le cose andavano già in questo modo. Dopo sono successi tanti avvenimenti, guerre, invasioni, combattimenti di papi e di re, ma i tratturi sono sempre rimasti di tutti.

     

    Da Francesco Jovine, Signora Ava, Roma, editore Tumminelli, 1942

     

    «Quando si fu seduto tra sua madre e Carmela che per fargli posto raccolse pudicamente le gonne intorno alle gambe, Ignazio Rivullo, passandogli la fiasca del vino, disse:

    - Bevi Pietro, - con un tono simpatico e caldo di voce.

    Pietro passò la mano sull'imbocco e bevve tre o quattro sorsi. Ma non aveva sete e non aveva voglia di rispondere alle domande che Ignazio gli rivolgeva:

    - Che si dice Pietro?

    - Niente.

    - Niente è troppo poco: tu te fai coi galantuomini e qualche cosa devi sapere.

    Pietro aggiunse di mala voglia: - È tornato Don Carlo da Napoli: l'hanno fatto medico -.

    Ignazio Rivullo ebbe un sorriso sapiente pieno di furbeschi sottintesi.

    - È vero che Don Carlo era duro per lo studio?

    - Chi l'ha detto?

    - Eh, lo dicono tutti.

    - Bravi, bravi, - fece Pietro e gli venne da ridere. Disse dentro di sé: “Che bellezza Don Carlo ciuco”. Ignazio riprese con lenta, meditativa voce:

    - Ma quando si misurano i ducati a staia, si dice bello a chi è brutto [Detto popolare. La staia corrisponde a mezzo litro, ma a Campobasso l'espressione “a staia” significa 'senza moderazione'.].

    Pietro guardava il fuoco e non s'accorgeva che Carmela lo osservava di sottecchi con aria tra indispettita e tenera. Il calore che gli saliva dalle gambe, il vino bevuto e quello svagato chiacchierare gli appesantivano gli occhi, e il capo di tanto in tanto gli ciondolava in avanti. Carmela gli premé il gomito nei fianchi ruvidamente e gli disse con un tono materno di rimbrotto:

    - Testa di sonno.

    Pietro sorrise e guardò la ragazza; per un attimo ella gli piantò nelle sue le pupille intense che al lume della vampa parevano carboni:

    - Non dormire, senti quello che racconta la nonna.

    Glielo disse col tono che ha la madre per distrarre il suo bimbo da un capriccio. Pietro guardò dalla parte della vecchia (testa magrissima, bocca sdentata e piccoli occhi arguti) che narrava con un ritmo cantante a piccole frasi interrotte da un impercettibile sibilo asmatico:

    - Quando Cristo andava per il mondo con gli apostoli, un giorno, avevano camminato, camminato, erano partiti da Trivento all'alba, a Trivento tutti briganti, e nessuno gli aveva dato da mangiare, arrivarono a San Felice, tutti schiavoni cani, Gesù Cristo diceva: “io e gli apostoli siamo digiuni da ieri” e gli schiavoni gli sbattevano la porta in faccia e non vollero dargli da mangiare. Cammina, cammina, stava per farsi notte e avevano i piedi piagati e lo stomaco che doleva. Cristo camminava avanti e non parlava; gli apostoli camminavano muti senza lagnarsi perché sapevano che chi soffre va in paradiso: solo san Pietro diceva a Marco: “Quando un'arte non dà pane, cambiala subito, e lasciala ai cani”. Ma san Marco lo lasciava dire. Arrivati sotto Monte Mauro, Gesù Cristo disse: “Belli figlioli dobbiamo arrivare sulla punta di Monte Mauro; prendiamo una pietra per uno e portiamola lassù”. San Pietro che era già molto arrabbiato domandò con mala grazia: “Come deve essere la pietra? grande o piccola?” “Ognuno si carica secondo le sue forze”, rispose Gesù. Allora gli apostoli presero tutti una grande pietra e se la caricarono sulle spalle: san Pietro raccolse la pietra più piccola che c'era, grande come un uovo di piccione e se la mise in tasca. Incominciarono a salire; la strada era cattiva e molto il peso che tutti portavano sulle spalle. Solo san Pietro non aveva il fiato grosso e diceva allegro: “Arriverete con la lingua di fuori, stupidi”. Arrivati finalmente in cima, sudati, stanchi morti, Gesù si fece la croce e disse le parole magiche. Allora le pietre che avevano portato si trasformarono in pane e ricotta. Tanti rotoli [Misura di peso usata nel meridione.] di pane e di ricotta quanti erano quelli della pietra portata. Tutti dissero la preghiera di ringraziamento e si misero a mangiare. Solo san Pietro si rigirava in mano la sua pagnottella grande come un uovo di piccione e piangeva: “Io così poco mangio?” Gesù disse: “Pietro, Pietro, poco hai lavorato e poco mangi”.

     

    Tutti risero. Ignazio, che era filosofo, commentò:

    - Bei tempi quando Gesù andava per il mondo.

    La piccola Concetta, che aveva ascoltato con la bocca aperta e gli occhi fissi, tirò la gonna della nonna e domandò:

    - e poi mammuccia [A Campobasso significa nonna]?...»

     

    da Silvia Ballestra, Il compleanno dell'iguana, Milano, Mondadori, 1991

     

    «Che c'avrai da ride', nun lo capisco proprio» disse Lu Purk, continuando a reggersi al braccio de Lu Mmalatu. «Al sottoscritto ja preso male, invece. C'ho quasi voja de spacca' la faccia a qualcheduno!..».

     

    Aveva detto proprio così, con il fare tracotante dei momenti migliori; ruttato rumorosamente, lasciandosi scivolare a terra, cercando di sistemarsi di schiena contro il cavalletto della tavolata. Con il culo sull'erba, i gomiti puntati alle ginocchia, reggeva la testa tra le mani abbastanza perso, in realtà.

     

    «Antò, Antò, nun fa' cossì» disse Lu Mmalatu mentre Lu Zorru e Lu Zombi, con gestualità trucide, tenevano facilmente alla larga rari gruppi di fighetti in transito nella zona. «Nun te lascia' affoga' in 'sto mare de merda. Guarda che rimane' bocciati può capita' a chiunque. Un anno passa presto; è peggio, si te metti a fare traggedie. Dai soddisfazione alli majali!».

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