6.2. La lingua della "Scienza in cucina e l'Arte di mangiar bene"

Cucina
Monumento funebre di Pellegrino Artusi, ad opera di Italo Vagnetti, 1916

Il merito di aver fondato una gastronomia moderna e di averle dato una lingua chiara e limpida spetta certamente a Pellegrino Artusi, che con le ricette della Scienza in cucina e l’Arte di mangiare bene ha unito l’Italia e gli italiani, a tavola.

 

Il manuale di Artusi non è dunque un libro di cucina come tanti altri. È infatti un libro che segna un profondo cambiamento rispetto al passato: nuovi sono i contenuti individuati (ingredienti semplici, attrezzature di facile reperibilità, procedimenti lineari), ai quali corrisponde una lingua nuova, freschissima, di matrice toscana, che ottiene il grande risultato di semplificare e uniformare il lessico della cucina, fondando le basi della lingua culinaria moderna.

 

A questa scelta linguistica Artusi giunge nella maturità, a 71 anni, dopo anni di studio nella ricca e aggiornata biblioteca di casa: qui Artusi – non letterato, non cuoco di professione, ma curioso e attento per i fatti di lingua – legge i testi della tradizione classica italiana, spoglia tante opere della letteratura toscana e fiorentina, consulta le opere di lingua e i dizionari, cui si aggiungono i libri dedicati a settori specifici, come i neologismi e i linguaggi settoriali. Dalla lettura quotidiana di questi libri e dal contatto diretto con la lingua viva della sua città d’adozione (Firenze), Pellegrino Artusi forma la sua lingua della cucina, in perfetto equilibrio tra elementi tradizionali e tratti della lingua parlata, continuamente arricchita e perfezionata man mano che uscivano le diverse edizioni della Scienza in cucina: il risultato è una lingua scorrevole, semplice, familiarmente colloquiale, che assicura al libro un grande successo di pubblico.

 

Secondo Artusi, così come l’alimentazione, anche la lingua deve tendere al semplice e al naturale, evitando di fare come i cuochi che usano il «gergo francioso», fatto di «nomi che rimbombano e non dicono nulla». Predomina perciò nella Scienza la volontà di razionalizzare, uniformare e livellare (secondo un ideale linguistico manzoniano) la nomenclatura della cucina, mettendo così ordine nella miriade delle denominazioni locali. Così, già dalla prima edizione, nella premessa alla ricetta n. 288 del Cacciucco, Artusi si sofferma proprio sul tipo lessicale cacciucco di area tirrenica, reso con l’equivalente adriatico brodetto (che però a Firenze vale tutt’altra cosa, e cioè una zuppa di pane in brodo legata con uova frullate e agro di limone), con questa conclusione: «La confusione di questi e simili termini fra provincia e provincia, in Italia, è tale che poco manca a formare una seconda Babele».

 

Nel raccontare le sue ricette, molte delle quali sono diventate ricette identitarie del “mangiare all’italiana”, il serbatoio lessicale al quale Artusi attinge più volentieri è sicuramente quello del toscano e del fiorentino, con l’impiego di parole ed espressioni dell’uso corrente (adagino adagino riferito al bollire della pentola, rincalzare i cavoli ‘essere sottoterra’, ‘essere morto’, al tocco ‘all’una’), e termini gastronomici e culinari (brigidini ‘piccole cialde impastate con uova, anici e zucchero’, castagnaccio ‘preparato a base di farina di castagne’, popone ‘melone’). Si incontrano anche parole straniere, a volte adattate (bordò ‘(vino) bordeaux’, ponce, e il fiorentinissimo rosbiffe), a volte non adattate (alkermes ‘tipo di liquore’, plum-cake, vol-au-vent) e perfino curiose traduzioni personali (balsamella per ‘besciamella’, sgonfiotto per ‘soufflet’).

 

Se l’aspetto lessicale è certamente predominante nella visione artusiana della lingua, non bisogna sottovalutare altre componenti: la spigliatezza della sintassi, la ricchezza dei modi proverbiali, il modo confidenziale di rivolgersi ai lettori, che Artusi intrattiene con divagazioni personali e aneddoti, sono il segreto del successo di questo straordinario romanzo della cucina, sul quale si è formato il gusto italiano del Novecento.