2. La realtà linguistica “italo-romanza”

    Dialetti e altri idiomi d'Italia
    Articolazione delle popolazioni all'alba della romanizzazione

    La definizione scientifica di “dialetti italiani” si collega al concetto di italo-romanzo formulato nel 1977 da Giovan Battista Pellegrini, per il quale il dominio linguistico “italo-romanzo” è costituito dai sistemi linguistici neolatini (o romanzi) parlati in Italia che hanno come “lingua tetto” l’italiano. Si tratta di una definizione che mette a fuoco gli elementi distintivi dei nostri dialetti: da un lato la loro comune origine latina, dall’altro il loro definirsi in rapporto alla lingua ufficiale dello Stato. Dal punto di vista genealogico si tratta dunque di lingue parlate che hanno per antenato il latino, e che possono dirsi “dialetti” perché i suoi parlanti individuano nell’italiano la propria lingua “ufficiale” di riferimento (individuare l’italiano come “lingua tetto” costituisce insomma il corrispettivo linguistico del  sentirsi “italiani” oltre che “piemontesi”, “sardi”, “veneti”, “siciliani”, ecc.). Al dominio italo-romanzo corrispondono così quello gallo-romanzo in area francese, quello ibero-romanzo nella penisola iberica, e così via.

     

    È dunque al processo di romanizzazione che va ricondotto il prodursi di quei sistemi linguistici che chiamiamo dialetti. Al progressivo espandersi dell’egemonia politica di Roma nella Penisola, collocabile tra il IV secolo a.C e il I secolo d.C., corrisponde un parallelo diffondersi del latino parlato (che a sua volta stava andando incontro a profondi cambiamenti rispetto al latino classico col quale abbiamo normalmente a che fare negli studi scolastici), che diventa lingua di apprendimento da parte delle popolazioni preesistenti . Il latino, infatti, non viene imposto da Roma come lingua dei conquistatori: sono i Veneti e gli Etruschi, i Sardi, i Liguri così come la grande famiglia degli Italici, a disporsi ad apprendere una lingua percepita come correlato di una società, quella romana, sentita come egemone.

     

    Proprio perché non mediata istituzionalmente, questa modalità spontanea di apprendimento fu interessata da più o meno vistosi fenomeni di interferenza, promossi dalle lingue alle quali il latino parlato andò a sovrapporsi. In questo senso la formazione dei sistemi “dialettali” va intesa come fenomeno di sostrato:  è come se al sovrapporsi del latino parlato le lingue delle popolazioni presenti nel territorio della penisola reagissero “imponendo” (in parte) al latino stesso alcune regole delle proprie grammatiche.

     

    Al progressivo perdersi del ruolo unificante – anche linguisticamente – dell’Impero, i sistemi risultanti dall’interferenza tra latino parlato e lingue “prelatine” furono sempre più autonomi e distinti. Si ritiene che intorno all’VIII secolo d.C. il latino fosse ormai scomparso come lingua parlata, sostituito in questo ruolo dalla multiforme galassia dei “volgari”: all’inizio del Trecento Dante, nel suo De vulgari eloquentia, ne descriverà brevemente quattordici,  pur avvertendo che, se si dovessero considerare anche le sotto-varietà, se ne conterebbero facilmente più di un migliaio (I, X, 7). Uno di questi “volgari”, nella  nella rappresentazione esibita dalla più illustre letteratura del Trecento, farà progressivamente carriera come “lingua”, costringendo gli altri al ruolo subordinato di “dialetto”.