2. Le culture delle migrazioni

Migrazioni
Negozio di alimentari a Parigi, 1930

I movimenti migratori hanno inciso profondamente sulla cultura: non solo di chi si spostava, ma anche di chi rimaneva nella terra di origine.

Prima di tutto, intere popolazioni che erano rimaste per secoli legate se non a un singolo villaggio quanto meno a un'area molto ristretta sono state proiettate in un altrove distante da tutti i punti di vista. Si sono trovati, dopo lunghi viaggi che tutti hanno vissuto come esperienze nuove, se non traumatiche, letteralmente dall'altra parte del pianeta, o comunque in paesi diversi per costumi e lingue. Sono passati dall'ambiente rurale alle grandi città: l'emigrazione italiana nel nord America e anche le migrazioni post-belliche e le migrazioni interne hanno avuto carattere più intensamente urbano rispetto a quelle da altri paesi. Hanno incontrato (un aspetto che troppo spesso si sottovaluta) anche “altri” italiani, provenienti da regioni diverse, connazionali per un'unificazione politica relativamente recente ma per altri aspetti quasi stranieri anch'essi: spinti a unirsi con loro dalla lingua come a volte dall'ostilità del paese di accoglienza; ma non meno spesso mossi al contrario verso forme di chiusura campanilistica.

 

Tutti questi cambiamenti si sono fatti sentire anche in patria, per la continuità dei rapporti tra paesi di arrivo e paese d'origine: una continuità mantenuta attraverso quel potentissimo mezzo di comunicazione che è il denaro, le famose “rimesse” inviate a casa dagli emigranti e che hanno costituito per molto tempo una voce importante del bilancio italiano; attraverso la scrittura (in un'epoca di ancora prevalente analfabetismo, proprio le migrazioni ottocentesche furono tra i maggiori promotori del leggere e scrivere); più tardi attraverso il telefono; e attraverso i racconti di chi tornava e la singolare lingua che portava.

 

Sono nate nei paesi d'arrivo culture spesso miste, o viceversa singolarmente conservatrici, che gli stessi compaesani faranno fatica a riconoscere e comprendere: dialetti rimasti quali erano decenni o secoli prima e insieme modificati dall'incontro con la nuova lingua, attaccamento a tradizioni che “al paese” sono da tempo scomparse, tradizioni “inventate”. A dimostrarlo le abitudini culinarie, caratterizzate spesso da nuovi apporti ma difese come segno d'identità.

 

Anche la lingua italiana si è mossa, accompagnando questi spostamenti di popolazione. Gli emigranti verso paesi lontani da un lato hanno portato i propri dialetti originari, preservandoli spesso, e hanno dato vita a parlate miste man mano che si insediavano nelle loro nuove aree di residenza: lingue nate dall'incrocio tra la parlata originaria e quella del paese di accoglienza, ma spesso influenzate pure dagli altri idiomi con cui erano venute a contatto. Così ad esempio le lingue degli italiani di molte aree degli USA portano i segni oltre che degli specifici dialetti e dell'inglese degli Stati Uniti anche di parlate nazionali egemoni a cominciare dal napoletano; e non mancano i prestiti di lingue differenti, in particolare legate alle specifiche professioni.

 

Le parlate immigranti sono rimaste per oltre un secolo escluse dall'insegnamento scolastico e anche il lavoro di analisi linguistica e lessicografica, sebbene praticato da alcuni appassionati spesso di formazione amatoriale, è rimasto sporadico. Solo negli ultimi tre-quattro decenni, sotto l'influenza dei movimenti identitari a partire dal revival etnico negli USA, si è cominciato a praticare un lavoro sistematico di rilevazione.