12. Il made in Italy fra creatività e strategie industriali

Moda e design
Il 5 aprile1982 la rivista TIME dedica la copertina a Giorgio Armani

Nel 1978 Beppe Modenese, public relation man con grande esperienza organizzativa, fu determinante nella creazione del Modit, rassegna di prêt à porter che proiettò Milano come polo di moda internazionale: Walter Albini, Laura Biagiotti, Mario Valentino, Ken Scott, c’erano … e poi arrivarono Armani, Krizia, Missoni, Fendi, Ferré e Versace; e poi ancora Moschino, Romeo Gigli e Dolce & Gabbana…

 

Sancita la nascita del Made in Italy, il 4 agosto 1983 il “Women’s Wear Daily” consacrò Modenese “Italy’s Prime Minister of Fashion”. Curioso! Lo stesso appellativo era toccato due secoli prima alla marchande de mode di Maria Antonietta, Marie Rose Bertin, considerata remota anticipatrice degli stilisti, o dei fashion designer, per concludere il passaggio del vocabolario della moda dal francese all’inglese. A Londra d’altra parte, già verso il 1965 “Quel casino […] testimoniava un rapporto nuovo, libero con il problema del vestire, […] la moda non scendeva più dall’alto, come lo Spirito Santo, ma dal basso. Ho soltanto un merito. Averlo capito” (cit. Gnoli, 2012, p.214), come testimonia quel “fenomeno” che fu allora Elio Fiorucci, che commentando poi il successo del made in Italy, concluderà:

In Italia, finalmente, si sono accorti che la moda è anche disegno industriale, mezzo di comunicazione e che l’arredamento, l’architettura e la creazione di un capo o di un accessorio di moda hanno lo stesso valore, lo stesso contenuto, subiscono le stesse influenze. Non vedo più nessuna differenza tra un disegno industriale di un mobile, di un’auto, di un vestito” (cit. Gnoli, 2012, p.236), che suona come un inno al total look propugnato da quel geniaccio di Walter Albini, primo vero “stilista” propriamente detto: stilista inteso come professionista indipendente, che lavora per diversi produttori, che propone alle aziende con le quali collabora linee non solo di abiti, oggetti, ma di stili di vita legati ad ambienti e filosofie, che siano conformi alla produzione aziendale stessa.

 

Se il Made in Italy ha potuto affermarsi è grazie ad una organizzazione economica della produzione basata sulla fusione dell’industria dell’abbigliamento e tessile con la creatività degli stilisti, il cui ruolo ha permesso di mirare ad una fascia di mercato “alta”, anche qualitativamente d’élite. Tuttavia, maestria esecutiva ed elevata sensibilità estetica non bastano a dare conto di un exploit così deciso, che deve tenere conto anzitutto del radicamento sul territorio, al quale hanno contribuito in modo determinante la diffusione del lavoro domestico legato all’abbigliamento e alle conoscenze di tutta una rete di pratiche artigianali, dal «taglio e cucito», al ricamo, alla maglieria (e potremo aggiungere tutte le competenze legate al settore del mobile e dell’arredo), valorizzate al massimo dalla creazione dei “distretti” legati alle comunità locali, in un tessuto di filiere finemente specializzate. Questo fenomeno, peculiare dell’Italia degli anni ’60-70, vede appunto la concentrazione in un’area delimitata di diverse capacità ruotanti intorno a determinati prodotti e lavorazioni, diverse dall’impresa di grandi dimensioni e dalle microimprese artigianali. Più imprese fra loro coordinate realizzano l’intera filiera produttiva, dando vita nello stesso territorio a una proficua sinergia e insieme a un’utile competizione. Ogni distretto è dotato di specificità connesse anche alla localizzazione di tradizioni artigianali risalenti nel tempo: il distretto di Prato vanta ad esempio una secolare tradizione in campo tessile, in altre si eccelle nella maglieria (significativo l’esempio di Carpi) o nella produzione calzaturiera, come nella Riviera del Brenta o nell’area del Rubicone, oppure della seta, come nel Comasco…

 

La maglieria fra gli anni ’60 e ’70 ha puntato molto sul sistema produttivo dei distretti. Settore dinamico, è rimasto propositivo lungo tutto il Novecento, dalla fortuna delle attività sportive e della balneazione, a Elsa Schiaparelli, che iniziò la sua folgorante carriera con gli originali maglioni-tatuaggio, al successo Luisa Spagnoli che nel 1928 inondò l’Italia, e non solo, del filato in morbida angora per la produzione di capi d’abbigliamento, la produzione di maglieria sarà caratterizzante della «moda boutique», entrando nella sua massima fioritura negli anni ’70, con i grandi nomi come Missoni, Krizia, Albertina, Pierluigi Tricò ecc. Ottavio e Rosita Missoni, presenti nel 1966 a Milano con una collezione innovativa di capi in maglia e l’anno successivo a palazzo Pitti, hanno imposto la melangiatura di colori e motivi, divenuto loro segno distintivo. Anche l’azienda fondata da Luciano Benetton nel 1965 si è basata sul colore, ma pieno, assoluto e rivolto ad una generazione più giovane e meno abbiente: i suoi United colors of Benetton sono divenuti un “caso” e un brand inossidabile: caratterizzato da un’attenta innovazione distributiva, oltre che produttiva, si è imposto anche grazie a una straordinaria campagna d’immagine all’avanguardia (curata da 1982 dal fotografo Oliviero Toscani), che ha occupato spesso anche la cronaca per i suoi contenuti provocatori, ma sempre attenti alle problematiche d’attualità della società globalizzata.

 

La globalizzazione è stata il fenomeno preminente sul quale si apre il nuovo millennio. I vecchi equilibri sono stati scardinati in ogni settore e la moda costretta a riorganizzarsi: stilisticamente e produttivamente. Nell’ultimo biennio una crisi economica di tali dimensioni da essere paragonata alla Grande depressione del 1929, sta producendo effetti non ancora ben valutabili, ma è indubbio che le imprese della moda italiane hanno vissuto un decennio estremamente critico, segnato da clamorosi dissesti finanziari, acquisizioni da parte dei due grandi poli del lusso francesi, da gravi ristrutturazioni aziendali. Fra le poche imprese in buona salute spicca ancora l’impero fondato da Giorgio Armani, che ha optato per l’acquisizione di imprese manifatturiere licenziatarie del marchio: una strategia “in attacco” che può indicare una prospettiva nuovamente competitiva al sistema moda italiano, nella riscoperta e nella valorizzazione delle origini manifatturiere (Cfr: Muzzarelli, cap. XV).